jueves, 31 de julio de 2014

Infografías de 1850

Las siguientes infografías fueron creadas por John Philipps Emslie y datan de mediados del siglo XIX


Fuente:  http://www.retronaut.com/2014/07/infographics-by-john-philipps-emslie/

Gaza, Paola Manduca: «Ospedali sotto attacco sistematico»



La professoressa Paola Manduca.
A Gaza, da qualche giorno, la morte che arriva dalla terra e dal cielo non risparmia nemmeno gli ospedali. Anzi, sembra addirittura averli presi di mira.

Per questo medici e scienziati, italiani e inglesi, che hanno lavorato volontariamente nella Striscia negli ultimi anni, e sono stati testimoni oculari delle guerre combattute tra Hamas e Israele, hanno deciso che è arrivato il momento di reagire. E di denunciare quella che ai loro occhi è una «scelta deliberata». Una strategia portata avanti «in modo sistematico» dall’esercito dello Stato ebraico.

In 24 hanno scritto una lettera aperta sulle conseguenze dei bombardamenti e dell’invasione di terra della Striscia di Gaza attualmente in corso. La professoressa Paola Manduca, genetista dell’Università di Genova, è la prima firmataria del documento, pubblicato martedì 22 luglio su The Lancet.

MEDICI SOTTO ATTACCO. Mentre l’offensiva ha già fatto più di 700 vittime tra i palestinesi, e l’Onu ha denunciato «possibili crimini di guerra» compiuti da Israele, Manduca ha raccontato a Lettera43.it cosa significa tentare di salvare vite umane a Gaza e sentirsi sotto attacco.

La professoressa è stata a Gaza a lungo nel 2011 e nel 2012. È tornata nel 2013, e nel 2014 ha trascorso tre mesi all’ospedale al Shifa di Gaza City, il più grande di tutta la Striscia. È rientrata in Italia circa 20 giorni fa, «quando gli israeliani hanno cominciato a bombardare».

DOMANDA. La sua lettera denuncia il numero crescente di ospedali bombardati a Gaza: perché questi attacchi?
RISPOSTA. La nostra opinione, l’opinione di tutti i firmatari della lettera, è che sia una scelta deliberata.

D. Come viene giustificata agli occhi dell’opinione pubblica?
R. Il governo israeliano, attraverso i suoi portavoce, ha affermato ufficialmente che, siccome a loro risulta che sotto gli ospedali ci siano dei bunker che contengono armi, gli ospedali stessi vengono ritenuti obiettivi bombardabili.

D. Tutti gli ospedali, senza distinzione?
R. Alla domanda diretta fatta da un giornalista di Al Jazeera: «Il governo israeliano aveva la certezza che sotto l’ospedale di al Aqsa (bombardato martedì 22 luglio: quattro morti e 40 feriti, ndr) ci fosse qualcosa?», il portavoce ha risposto: «Sul caso specifico devo informarmi con l’esercito». Peccato però che il bombardamento sia avvenuto comunque, e che ci siano dei dati di fatto che smentiscono la versione del governo di Israele.

D. Quali?
R. Per esempio, che nessuno di questi bombardamenti abbia dato luogo a esplosioni secondarie, tipiche di un deposito d’armi colpito che salta in aria. Inoltre, quasi tutti i bombardamenti sugli ospedali che ci sono stati finora hanno colpito i piani centrali delle strutture. Quelli dove in genere ci sono le sale operatorie, i reparti dei lungodegenti. Secondo noi medici firmatari della lettera, c’è ragione di pensare che l’esercito israeliano stia facendo tutto questo in maniera sistematica.
 
D. A che scopo?
R. Spero di sbagliarmi, ma fin dall’inizio del conflitto la propaganda israeliana ha messo in giro la voce che sotto l’ospedale al Shifa di Gaza City, il più grande dell’intera Striscia, ci sono dei bunker dove si sono rifugiati i dirigenti di Hamas. La cosa è poco credibile, ma è stata su tutta la stampa israeliana fin dall’inizio della campagna militare e continua a ritornare. Temo che l’obiettivo possa essere proprio questo.
 
D. Quali sarebbero le conseguenze di un attacco contro l’ospedale di al Shifa?
R. Colpire lo Shifa, oltre a essere un massacro, significherebbe cancellare la classe medica di Gaza. Significherebbe eliminare la possibilità per gli abitanti di Gaza di avere qualsiasi assistenza medica. Perché allo Shifa non vengono portati solo i casi d’emergenza in tempo di guerra, ma vengono curati moltissimi pazienti anche in tempo di pace: cardiopatici, malati in terapia intensiva, e altri ancora. Allo Shifa nascono 50 bambini al giorno, e in quell’ospedale lavorano al momento tutti i medici della Striscia che abitano a Gaza City. Anche quelli normalmente operanti altrove.
 
D. In base alla sua personale esperienza negli ospedali della Striscia, ha mai potuto riscontrare la presenza di armi o di dirigenti politici nascosti al loro interno?
R. Assolutamente no. Quello che ho potuto riscontrare, però, è che quelli di Hamas non sono dei matti.
 
D. In che senso?
R. Io ho lavorato a lungo negli ospedali pubblici della Striscia di Gaza. I medici dello Shifa, anche quelli che fanno parte di Hamas, o che sono simpatizzanti del movimento islamico, non sono dei massacratori. A Gaza esistono infiniti tunnel: secondo lei andrebbero a nascondersi proprio sotto lo Shifa? Se tanti di noi che hanno una contiguità di esperienza e di lavoro con Gaza scrivono certe cose, è perché le abbiamo viste tutti e siamo tutti preoccupati in questo momento.
 
D. Lei era a Gaza anche durante i precedenti conflitti tra Hamas e Israele?
R. Sono stata a Gaza molto a lungo nel 2011 e nel 2012. Sono tornata brevemente nel 2013 e poi di nuovo quest’anno. Nel 2014 sono stata a Gaza per tre mesi, rientrando in Italia circa 20 giorni fa, quando Israele ha cominciato a bombardare. Ero in lista d’attesa per uscire dalla Striscia già da 40 giorni, ma gli egiziani hanno tenuto il valico di Rafah chiuso. Ho dovuto aspettare a lungo il mio turno. A proposito dell’inizio dei bombardamenti, però, c’è una cosa che vorrei sottolineare.
 
D. Prego.
R. Israele ha iniziato a bombardare Gaza lo stesso giorno in cui sono stati rapiti i tre ragazzi poi ritrovati morti in Cisgiordania. Ogni sera, da quel momento in poi, è caduta almeno una bomba su Gaza.
 
D. Dal giorno stesso del rapimento?
R. Sì. Noi eravamo lì: posso testimoniare che Israele ha bombardato Gaza ogni sera. E che per i primi giorni non c’è stata nessuna risposta. Poi hanno iniziato a rispondere al fuoco alcune fazioni armate, ma non Hamas. Hamas è stata l’ultima a sparare. Nella Striscia non c’è solo Hamas e non si può pretendere, come del resto non si pretende in nessun’altra parte del mondo, che Hamas abbia il controllo totale di quello che fanno gli altri sul suo territorio.
 
D. Sta dicendo che Hamas non voleva la guerra?
R. Dico che Hamas è stata così responsabile da non rispondere subito alle bombe israeliane. Perché sapevano cosa sarebbe successo altrimenti e perché Hamas non voleva questa escalation. O quantomeno, non l’ha fatta precipitare. Ha risposto quando ormai le altre fazioni avevano già risposto, e quando i bombardamenti si sono intensificati. A quel punto non c’era più un’altra strada.
 
D. C’è chi sostiene che Hamas si stia spingendo oltre per costringere l’Egitto a fare maggiori concessioni alla causa palestinese.
R. Dal mio punto di vista, non è questione di ottenere delle concessioni. La questione è che al Sisi, dopo aver preso il potere con un colpo di Stato, ha iniziato a bombardare tutti i tunnel. Ne ha distrutti circa 1.700. Da quel momento a Gaza non è arrivato più nulla. Né carburante, né materiali da costruzione, né cibo, né medicine: nulla.
 
D. Perché i tunnel sono così importanti per Hamas?
R. L’economia di Gaza, per almeno due anni, è stata mediamente tollerabile solo grazie ai tunnel. Sia per le merci, che in questo modo riuscivano a entrare e a uscire dalla Striscia, sia perché su quei tunnel, dopo l’iniziale fase di sviluppo spontaneo, sono state messe delle tasse. Una dogana. Il governo di Hamas ha potuto pagare i suoi dipendenti perché ha ricavato delle entrate autonome attraverso i tunnel.
 
D. In quali condizioni lavorano i dipendenti pubblici di Gaza, medici compresi?
R. A partire dal 2007, dopo la separazione da Hamas, i dipendenti pubblici che erano di al Fatah, in una certa percentuale che varia a seconda dei settori, ma che nell’ambito medico per esempio è stata del 27%, si sono rifiutati di andare a lavorare. Il governo di Ramallah ha continuato a pagarli lo stesso per sette anni, fino alla riunificazione. I dipendenti pubblici di Hamas hanno preso per anni uno stipendio più basso degli altri, di quelli che per sette anni non hanno lavorato e che, con la riunificazione, hanno anche ottenuto delle promozioni.
 
D. Di che cifre stiamo parlando?
R. Io ero in ospedale quando c’è stata la riunificazione. Ero in compagnia di alcune mie colleghe: due impiegate del governo di Gaza, e una pagata invece da Ramallah. Quest’ultima aveva uno stipendio di 900 dollari al mese, le altre di 300 dollari.
 
D. E adesso che i tunnel vengono distrutti, come farà Hamas a pagare gli impiegati?
R. Immediatamente, nel momento in cui sono venuti meno i soldi dei tunnel, sono mancati anche i soldi per pagare i dipendenti pubblici. A Gaza hanno lavorato da novembre fino a marzo percependo la metà dello stipendio. Da marzo in poi moltissimi non lo hanno più ricevuto. E parliamo di persone che andavano a lavorare tutti i giorni.
 
D. Israele però sostiene che bombardare i tunnel sia necessario, per fermare l’arrivo dei pezzi usati per costruire i razzi.
R. È sicuramente possibile che attraverso i tunnel arrivi anche materiale bellico. Ma perché ogni Paese del mondo può avere le sue forze armate e i palestinesi no? I palestinesi di Gaza hanno rispettato la tregua firmata a novembre 2012. Da allora Hamas non aveva più sparato contro Israele. Perché non gli è concesso avere un esercito regolare?
 
D. Quali sono le patologie principali di cui soffrono gli abitanti della Striscia e che non possono essere curate adeguatamente?
R. Come tutte le popolazioni, anche quella dei palestinesi di Gaza ha le sue inclinazioni: un alto livello di diabete e di malattie cardiache. Ma le patologie che non possono essere curate adeguatamente sono moltissime. Per esempio, prendiamo le malattie croniche, siano esse dei bambini, dei giovani o degli anziani. In assenza di un rifornimento costante di medicine, il malato cronico per un po’ si cura, finché durano le scorte. Quando poi le medicine mancano, la terapia viene sospesa per forza. Un altro grave problema è quello delle patologie collegate alle abitudini alimentari
 
D. Carenza di cibo?
R. Non solo. Il fatto è che gli abitanti della Striscia di Gaza mangiano quello che gli viene dato da mangiare da Israele. Quello che Israele decide di fare entrare. Questo è stato vero finché con i tunnel non sono iniziati gli arrivi di generi alimentari dall’Egitto. Adesso che dall’Egitto non arriva più nulla, al mercato la situazione è desolante.
 
D. Non potrebbero coltivare o pescare di più?
R. Il 40% dei terreni agricoli di Gaza sono diventati indisponibili a causa della buffer zone imposta da Israele. E gli abitanti della Striscia non possono più nemmeno pescare, perché hanno il limite delle tre miglia e perché le acque sono contaminate. A causa della mancanza di elettricità, i tre depuratori presenti in tutta la Striscia non funzionano. Il mare di Gaza è bellissimo da vedere, ma è meglio non avvicinarsi.
 
D. Quali sono le conseguenze del regime alimentare forzato?
R. Diffusi difetti di crescita nei piccoli, che crescono più lentamente del normale. Anemia, nelle madri e nei bambini. In generale, l’alimentazione della gente povera di Gaza non è affatto equilibrata.
 
D. Lo scontro armato non poteva essere evitato?
R. La domanda giusta, secondo me, è un’altra. Come mai a Gaza, nonostante tutto questo, non c’è nessuno che si sia dichiarato contrario alle azioni di resistenza di Hamas e degli altri gruppi armati? A Gaza sono tutti dalla parte della resistenza. La sensazione condivisa è: «Questa volta andiamo fino in fondo, perché non abbiamo altra scelta. Le abbiamo provate tutte, compreso il governo di riconciliazione».
 
D. Perché non ha funzionato?
R. Il governo di riconciliazione è stato, a mio parere, un tentativo politico serio per non entrare in guerra. Ma non appena è stato fatto, Israele ha deciso di attaccare. Fra l’altro, noi non sappiamo ancora chi abbia rapito i tre ragazzi israeliani la cui morte è stata la scintilla della guerra. In ogni caso, in tutti i Paesi del mondo, un fatto del genere sarebbe stato affrontato con gli strumenti della polizia giudiziaria. Mentre, fin da subito, Israele lo ha trasformato in un casus belli.
 
D. Rispetto agli attacchi contro gli ospedali della Striscia, la classe medica israeliana si è mai mostrata solidale?
R. In Israele c’è un piccolo gruppo, che si chiama Physicians for human rights, che è solidale da sempre con i medici che lavorano nella Striscia. Io li ho conosciuti nel 2006, però credo davvero che siano una minoranza molto esigua.
 
D. E il mondo della cultura, gli accademici?
R. Un collega, nei giorni scorsi, ha scritto un appello rivolto agli accademici israeliani per un boicottaggio culturale dell’aggressione militare. Chiedeva ai docenti universitari di pronunciarsi sulla guerra. Ebbene: su 1.000 destinatari, solo 52 hanno risposto dissociandosi dal governo. Il 5%. Non sono tutti medici, ovviamente. Però la fotografia è questa. E nonostante ciò, le università israeliane sono le uniche non europee che possono partecipare ai progetti di ricerca finanziati dall’Unione europea. Come se la scienza fosse un campo neutro, quando invece non lo è affatto.
 
D. Quando prevede di rientrare a Gaza?
R. Per ora la Striscia è chiusa. C’è stato un tentativo di alcuni colleghi chirurghi, che hanno provato a passare, ma non sono riusciti a entrare. Non è stato fatto entrare nessun convoglio umanitario che non fosse governativo o delle Nazioni unite, da quando è iniziata l’aggressione di terra. Ci sono medici palestinesi all’estero da anni che andrebbero volentieri a dare una mano in questo frangente. Il loro lavoro sarebbe preziosissimo, ma non vengono fatti entrare. I chirurghi che lavorano in ospedale, sotto le bombe, fanno quello che possono. E non hanno nemmeno il tempo per raccontarlo.
 

“¿Cómo puede ser ilegal darle tu comida a una persona que tiene hambre?”

Son palabras de Norma Romero, Premio Nacional de Derechos Humanos 2013 en México y líder de Las Patronas, colectivo de mujeres que apoya a migrantes que viajan en La Bestia a su paso por Veracruz

La Comisión Nacional de Derechos Humanos mexicana ha llegado a contabilizar 10.000 migrantes secuestrados en un periodo de solo seis meses

Ante las carencias del Gobierno, la sociedad civil mexicana se organiza para luchar por los derechos de los migrantes. Apoyamos esta lucha junto a organizaciones locales

 AeA México_Las Patronas

La Bestia se ha ganado su sobrenombre a fuerza de historias; algunas pudieron ser contadas, otras no. La Bestia mutila y mata con sus fauces férreas: es tan sólo uno de los muchos trenes de carga que se deslizan por las vías mexicanas, con la peculiaridad de que entre sus mercancías transporta a miles de migrantes cada día. Algunos se encaraman en lo alto de sus vagones gratuitamente, otros (cada vez más) tratan de asegurarse el éxito de su viaje al norte contratando los servicios de intermediarios llamados coyotes o polleros; pero todos se arriesgan a pagar un precio mucho más alto. Un pie, las dos piernas, o hasta la vida.
Estas historias empezaron a conocerse en la localidad de La Patrona, en el estado mexicano de Veracruz, en 1995. Un día de ese año, las hermanas Clementina y Bernarda Romero, regresaban a casa con la compra. El tren pasó y aquellas personas que se aferraban a su estructura de hierro les pidieron auxilio. “Tenemos hambre”, gritaron los primeros. “Madre, ayúdanos”, gritaron los del siguiente vagón. Incrédulas, las dos mujeres les lanzaron la leche y los alimentos que acababan de comprar. Al regresar a su casa, explicaron lo ocurrido a su madre y a sus hermanas. Sólo dos cosas estaban claras. La primera, un detalle especialmente importante que cambiaría su concepción de la realidad y del mundo: aquellos hombres no eran mexicanos. Hasta entonces, pensaban que el tren era utilizado por algunos connacionales aventureros como medio de transporte para recorrer el país. Por sus acentos, extraños, supieron que no era así. La segunda cuestión de la que no cabía duda era que aquellos hombres tenían hambre. Y que ellas podían ayudarles.

Casi 20 años después, Norma Romero, hermana de Clementina y Bernarda, ha sido galardonada con el Premio Nacional de Derechos Humanos de México en 2013. Este mes, ella y su sobrina Leo han viajado hasta Madrid para contar su experiencia. Las mujeres de esta familia empezaron a organizarse aquella tarde de 1995: a diario, se colocaban a lo largo de la vía del tren y repartían comida y agua entre los migrantes, alcanzándosela como podían mientras éste pasaba. En un principio, eran sólo cinco, las hermanas Romero y su madre. Aunque llegaron a ser veinticinco, sólo catorce se han mantenido hasta hoy. El estigma y la presión social, ejercida por la comunidad sobre sus maridos y por sus maridos sobre ellas, provocó el abandono de algunas. Otras lo dejaron por el miedo a ser detenidas, ya que hasta 2008 ofrecer socorro a los migrantes podía ser juzgado como delito. Pero ninguno de estos motivos detuvo al resto, que se preguntaban cómo la solidaridad podía estar mal vista, y hasta penada, en su país. “¿Cómo puede ser ilegal darle tu comida a una persona que tiene hambre? ¿Es mejor tirarla? ¿Darla a los cochinos?”, reflexiona Norma. El grupo siguió ayudando a los migrantes: primero con comida y agua, y poco a poco también con asistencia sanitaria, alojamiento, asesoramiento e información, etc. Paralelamente, empezaron a dibujar una imagen de los migrantes alternativa a la oficial y hegemónica, que les vincula inevitablemente con la delincuencia y la criminalidad.

En 2005, un documental llamado “De nadie” hizo pública la labor de estas mujeres, que ahora son conocidas en todo el mundo como Las Patronas. Para entonces, los flujos migratorios habían aumentado tanto (así como el precio de los alimentos) que por sí solas no daban abasto: en sus inicios, viajaban en los trenes varias decenas de personas; ahora, son cientos y hasta miles los que cada día suben a su lomo. Gracias a la película, el trabajo de Las Patronas empezó a divulgarse. Sin embargo, son muchos los casos similares que permanecen en el anonimato, muchos los mexicanos que entienden que el “problema migratorio”, el “drama de la migración” es problema y es drama para aquél que lo abandona y arriesga todo en busca de una vida mejor, mucho más que para el estado que lo recibe. Hoy, Las Patronas forman parte de una red de albergues para migrantes compuesta por más de sesenta centros que, juntos, tratan de coordinarse y asegurar el cumplimiento de los derechos humanos de estas personas. En Ayuda en Acción compartimos la misma preocupación y por eso en México trabajamos en pro de los derechos de los migrantes a través de estos albergues. En nuestra colaboración con Las Patronas, posibilitada gracias a la financiación del Ayuntamiento de Ermua, hemos llevado a cabo recolectas de fondos y alimentos para reforzar la ayuda que ofrecen a los migrantes, y también hemos equipado adecuadamente la cocina y los dormitorios de sus instalaciones. Además, intentamos fortalecer el grupo ofreciendo talleres sobre derechos humanos, género, primeros auxilios y computación.

La realidad migratoria en México
A la vez que el flujo migratorio crecía, el perfil del migrante se iba diversificando: si en un principio los que viajaban eran hombres jóvenes, poco a poco fueron subiéndose al tren mujeres, algunas incluso embarazadas, niños, ancianos… Casi todos eran centroamericanos: cerca del 95% de los migrantes detenidos en México proceden de Guatemala, Honduras, El Salvador y Nicaragua. En estos países, el factor político como causa migratoria fue sumándose al económico durante las décadas de 1970 y 1980, con el aumento de los conflictos armados. Desastres naturales como el terrible huracán Mitch, en 1998, también han provocado oleadas de los denominados migrantes medioambientales en Centroamérica. Desde los 2000, la criminalidad organizada se ha convertido en una de las principales causas de los flujos migratorios del sur hacia el norte en la zona. La frontera sur de México es una de las más porosas del mundo. Se estima que el 9% de las personas que la atraviesan de sur a norte (lo que equivale a más de 170.000) son migrantes irregulares camino a Estados Unidos, ya que para la mayoría de los centroamericanos, el país azteca no es más que un corredor que hay que atravesar para llegar allí; sólo unos pocos tienen México como destino final.

Por otro lado, no todos los migrantes mexicanos atraviesan la frontera norte del país: la movilidad interna es otro componente de la realidad migratoria con la que trabajamos en Ayuda en Acción. Los jornaleros de los estados de Guerrero, Oaxaca y Chiapas, muchos de ellos indígenas, migran al centro y al noroeste del país para trabajar en explotaciones agrícolas por periodos de hasta seis meses. Allí, sus derechos laborales y sociales son constantemente violados. Para enfrentarnos a esta injusticia, en colaboración con las organizaciones locales Voces Mesoamericanas y Enlace y con financiación del Ayuntamiento de Eibar, ayudamos a los jornaleros a organizarse para luchar por sus derechos, además de intentar incidir en las políticas públicas y sensibilizar a la población local, buscando un impacto positivo sostenible a largo plazo en las condiciones de vida de estas personas.

AeA México_Teresa Jiménez
El esposo de Teresa Jiménez desapareció en el desierto camino de Estados Unidos. Foto: Salva Campillo / AeA

Secuestros, violaciones y otros abusos a migrantes
La Bestia mata y mutila, sí, pero representa sólo una pequeña parte del viaje de los migrantes y de los peligros a los que se enfrentan. Las rutas migratorias están llenas de riesgos, el hambre y la sed también acechan, pero sin duda la mayor amenaza es la humana. La delincuencia organizada se ha desplegado en torno a estos trayectos y, aprovechándose de la invisibilidad de los migrantes y de su limitado o nulo acceso a la justicia, asalta, secuestra y asesina a miles de ellos. La Comisión Nacional de Derechos Humanos publicó en 2009 el alarmante dato de casi 10.000 migrantes secuestrados en un periodo de sólo seis meses entre 2008 y 2009. En 2010, fue hallada en San Fernando (Tamaulipas) una fosa con restos de setenta y dos migrantes asesinados, según un superviviente, por negarse a trabajar para un cártel de la droga. El reclutamiento forzado es una de las causas de los secuestros de migrantes por estas grandes organizaciones criminales; el pago de un rescate por parte de familiares, otra. El robo de dinero, pertenencias y ropa motiva la mayoría de los asaltos de bandas de delincuentes menores. Las mujeres y niñas son especialmente vulnerables ante los abusos sexuales: organizaciones de derechos humanos calculan que 6 de cada 10 mujeres migrantes sufren violencia sexual durante el trayecto. La implicación de algunos funcionarios públicos, del propio Instituto Nacional de Migración, el ejército y la policía, supuestos garantes de los derechos humanos de estas personas, ha sido ampliamente documentada y es hoy innegable. La corrupción germina en un clima de impunidad que a su vez se retroalimenta de aquélla.

En este contexto, son muchos los familiares que se despiden de un migrante y nunca vuelven a saber de él. Y, en general, el Gobierno mexicano no sólo permite estos crímenes, sino que además niega a los familiares de los desaparecidos el derecho a la verdad, la justicia y la reparación ( Vídeo Fundación para la Justicia). El Estado carece de la voluntad o la capacidad para desarrollar mecanismos efectivos orientados a la búsqueda de una persona, así como a la identificación forense de los restos encontrados. Incluso se han dado casos de familias que han recibido un cuerpo que no era el de su pariente. De nuevo, es la iniciativa ciudadana la que se encarga de contrarrestar estas deficiencias. La mayoría de los casos de localización de un migrante desaparecido no son resultado de la acción estatal, sino de caravanas de madres que recorren la ruta migratoria buscando a sus desaparecidos, a menudo exponiéndose a los mismos peligros que éstos.
Ante la complejidad del asunto, es necesaria la coordinación entre países de origen, de tránsito y de destino, así como entre la multiplicidad de instituciones que trabajan en todo el proceso de búsqueda e identificación de migrantes no localizados. En este sentido, hemos desarrollado otra iniciativa junto a Voces Mesoamericanas y Enlace, con la financiación de la Unión Europea: el Banco de Datos Forenses sobre Migrantes No Localizados del Estado de Chiapas. Buscando siempre la sostenibilidad de la acción, tratamos de que las familias conozcan y exijan sus derechos, así como de que el Estado los provea.


¿Y qué hace el Gobierno mexicano?
Desde 2004, el presidente otorga anualmente el Premio Nacional de los Derechos Humanos. En diez años, la mitad de estos galardones han sido concedidos a personas centradas en la defensa de los derechos humanos de los migrantes, como es el caso de Norma Romero, actual líder de Las Patronas y receptora por ello del premio en 2013. El reconocimiento a la labor de estas personas es justo y merecido, pero el papel del Estado no puede ni debe limitarse a aplaudir estas iniciativas, sino que es su obligación construir un marco político, jurídico y social que garantice a todas las personas sus derechos más básicos. En un país de sus características, la empatía y la solidaridad debería ser la norma y no la excepción: lo mismo que demanda para los migrantes mexicanos residentes en Estados Unidos, debe ofrecerlo para los migrantes extranjeros que se encuentren en México.
 

miércoles, 30 de julio de 2014

La ONU da 90 días a España para decir qué hará con las víctimas del fascismo

El Grupo de Trabajo sobre las desapariciones forzadas de Naciones Unidas ha presentado un demoledor informe tras su visita a España el pasado septiembre, que concluye con una larga lista de recomendaciones para el Gobierno y la petición de que en un plazo de 90 días “presente un cronograma en el que se indiquen las medidas que se llevarán a cabo” para implementar sus peticiones y asistir a las víctimas del franquismo.

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El informe recuerda que España está “obligada” por el derecho internacional y la Declaración sobre protección de todas las personas contra las desapariciones forzadas a “asumir su responsabilidad” y elaborar “una política de Estado comprensiva, coherente y permanente” que permita a los familiares de los desaparecidos durante la Guerra Civil y la dictadura saber qué pasó con sus seres queridos y recuperar sus restos. “Dado el transcurso del tiempo desde que la mayor parte de las desapariciones forzadas comenzaron a ejecutarse y la edad muy avanzada de muchos testigos y familiares, es urgente que el Estado adopte como inmediata prioridad la búsqueda de la verdad y en particular sobre la suerte y el paradero de las personas desaparecidas”, dice el informe.

El grupo de trabajo de Naciones Unidas sobre las desapariciones forzadas ha enviado al Gobierno hasta 42 recomendaciones y manifiesta su.disposición a “continuar el diálogo constructivo con el Estado español” al tiempo que ofrece su “asistencia” para que España cumpla con declaración contra las desapariciones forzadas que ha ratificado. Estas son sus recomendaciones.

1. Desaparecidos. Un plan nacional de búsqueda. Como norma general, la ONU recomienda a España que proporcione “mayor apoyo institucional y financiero” a las asociaciones y familiares de las víctimas del franquismo y que cree una “entidad estatal dotada de suficientes recursos humanos, técnicos y financieros” que se encargue de “todas las cuestiones relativas a las desapariciones forzadas, incluyendo el establecimiento una base de datos central sobre desapariciones”. Naciones Unidas pide al Gobierno que elabore un “plan nacional de búsqueda” de estas personas y que lo ponga en marcha “a la mayor brevedad posible”. El Ejecutivo de Mariano Rajoy ha hecho, hasta la fecha, todo lo contrario, ya que ha eliminado todas las partidas previstas en la ley de memoria histórica (derogada de facto) para ayudar a los familiares a localizar a las víctimas.

2. Jueces en las fosas. La ONU pide a España que asegure que “los responsables de la administración y procuración de justicia se personen en el momento de la ejecución de las exhumaciones y luego analicen los resultados que las mismas arrojan y actúen de acuerdo con ellos”. Los familiares de víctimas del franquismo siempre denuncian ante el juzgado correspondiente la apertura de las fosas, es decir, el hallazgo de restos humanos con signos evidentes de muerte violenta (cráneos agujereados por el tiro de gracia, casquillos, balas…), pero los juzgados casi nunca contestan.

3. Justicia. Investigaciones “de oficio”. Naciones Unidas recomienda “investigar de oficio y juzgar todas las desapariciones forzadas a la luz de las obligaciones internacionales, de manera exhaustiva e imparcial, independientemente del tiempo transcurrido desde el inicio de las mismas”. Para ello, reclama “eliminar todos los obstáculos jurídicos de orden interno que puedan impedir tales investigaciones judiciales”, como la ley de amnistía de 1977, el principal argumento esgrimido hasta ahora para no llevarlas a cabo. El único juez que abrió una investigación sobre los crímenes del franquismo, Baltasar Garzón, fue procesado por ello, acusado de prevaricación, y finalmente absuelto.La ONU propone a España “actualizar, depurar y poner a disposición del público” la base de datos que el magistrado elaboró desde su juzgado, el número 5 de la Audiencia Nacional, durante la frustrada investigación.

4. Símbolos. El Valle de los Caídos. La ONU pide a España que proporcione “los fondos adecuados” para que la ley de memoria histórica “pueda aplicarse” y que se cumplan, entre otros, los artículos relativos a la retirada de símbolos y vestigios del franquismo. En este sentido, el grupo de trabajo de Naciones Unidas contra las desapariciones forzadas solicita al Gobierno que “vele por el respeto a la disposición de la ley que dispone la retirada de escudos, insignias, placas y otros objetos o menciones conmemorativas de exaltación, personal o colectiva, de la sublevación militar, de la Guerra Civil y de la represión de la dictadura” . Y reclama, especialmente, la “implementación” de las recomendaciones de la comisión de expertos nombrada durante el Gobierno de José Luis Rodríguez Zapatero y que proponía retirar del Valle de los Caídos los restos del dictador Francisco Franco y convertir el lugar en un museo de la memoria similar al que acoge en la actualidad la Escuela de Mecánica de la Armada Argentina (ESMA).

5. Niños robados. Banco de ADN. La ONU propone a España “fortalecer los esfuerzos con miras a buscar e identificar a los niños y niñas que podrían haber sido víctimas de apropiación” y garantizar un banco nacional de ADN que integre “muestras genéticas de todos los casos denunciados”.

6. Comisión de la verdad. El grupo de trabajo sobre desapariciones forzadas de la ONU propone a España que considere “la creación de una comisión de expertos independientes encargada de determinar la verdad sobre las violaciones a los derechos humanos ocurridas durante la Guerra Civil y la dictadura”.

7. Justicia universal. Colaborar con Argentina. Naciones Unidas pide que las reformas legislativas relativas a jurisdicción universal no afecten a la investigación de casos de desaparición forzada y solicita a España, además, que colabore con los Estados que, en aplicación de ese principio, abran investigaciones sobre este tipo de delitos, como ha hecho la justicia argentina con los crímenes del franquismo.
Estas recomendaciones no son vinculantes. El Gobierno no está obligado a cumplirlas, pero sí ha de contestar a Naciones Unidas, explicarle qué va a hacer y qué no y motivar su decisión.

Fuente:  http://www.yometiroalmonte.es/2014/07/30/onu-90-dias-espana-victimas-fascismo/

Por qué cantan los pájaros

...Walter Garstang, profesor de zoología en la Universidad de Leeds, en Inglaterra, a principios del siglo XX, es conocido por el público general gracias a uno de los libros más insólitos de todos los tiempos sobre el canto de los pájaros, Cantos de los Pájaros (1922), un trabajo que camina equidistante entre la ciencia y  la poesía .
  La mitad del libro de Garstang apela a la nueva ciencia del sonido de los pájaros. El sonido es difícil de analizar porque el tiempo no puede detenerse. "Nuestro objetivo es estudiar la expresión de la emoción que contiene el sonido. Nuestra dificultad radica en que estamos invadiendo un mundo por completo inmaterial de cosas que se desvanecen tan pronto como surgen". Garstang era un oyente inusualmente dotado para las abstracciones de la música. Era asimismo capaz de relacionar lo que escuchaba con las ideas de Darwin acerca del modo en que se había producido la diferenciación de las especcies de pájaros y el modo en el que el canto podría ilustrar las conexiones evolutivas entre ellos.[...] Detecta la necesidad de crear algún tipo de notas detalladas para poner por escrito el canto de los pájaros. No le gustan las notas musicales que sus predecesores han utilizado y, en vista de ello, será pionero de un tipo de notas abstractas silábicas que parecen provenir del  jug-jug de la época isabelina y del cheeer-up, cheer-ups de John Clare. La búsqueda de este grial empuja al científico Garstang en una dirección poco corriente.
 Garstang se ve tentado en dos direcciones: la primera, le conduce a tratar de hallar el modo de representar la estructura y el tiembre del canto de los pájaros, para lo cual cree conveniente recurrir a palabras reconocibles. Más tarde intentó entrar en el mismo corazón del canto. La ciencia, escribe, puede intentar trazar el origen de un canto o su objetivo para descubrir su auténtico propósito, pero el canto en sí mismo es una expresión de las emociones del pájaro, una "elevación prolongada del espíritu", una transformación de sus graznidos y su piar en algo superior, "una expresión de toda la alegría de la vida en su clímax del bienestar". Éste es el punto de vista que mete un pie de Garstang en el campo de la poesía.
  La segunda mitad de su libro se compone de poemas raramente optimistas basados en estas transcripciones matizadas del canto de los pájaros, mezcladas con parodias rimadas que celebran todos los sentimientos maravillosos que nos hacen sentir los pájaros. El trabajo se publicó en varios periódicos ingleses y aunque sus composiciones no fueron consideradas como gran poesía, parece que fue bastante popular en su época. He aquí una alondra anunciando el amanecer:

¡Swee! ¡Swee! ¡Swee! ¡Swee!
¡Zwée-o! ¡Zwée-o!  ¡Zwée-o!  ¡Zwée-o!
¡Sís-is-is-Swée! ¡Sís-is-is-Swée!
¡Joo! ¡Joo! ¡Joo! ¡Joo!
 ¡Jée-o!  ¡Jée-o! ¡Síssy-sejóo!
¡Jit! ¡Jit! ¡Jit! ¡jit! ¡Jit! ¡jit! ¡Dzóo! 
¡Zée! ¡Wee, wée, wee! ¡Sís-is-is-Swée!
¡Swée-o, Swée! ¡Swée-o, Swée!
¡Swée, swee, swée, swee, swée, swee! ¡Swée!

  Garstang no pensó que estaba perdiendo el tiempo. Consideraba estas nuevas palabras como una herramienta científica: una rigurosa y exacta transcripción. Cuando un crítico de la prensa preguntó si "esta poesía checoslovaca" era necesaria, Garstang respondió que descifrar nuevas lenguas requería nuevas sílabas.
  He aquí un científico que reconoce que el objeto de su investigación pone a prueba el límite de la razón. Se convirtió en un poeta para poder encontrar algo genuino que decir sobre la felicidad. Sus poemas pueden paecer solamente como pies de página de la inescrutabilidad del mundo de los pájaros, pero no se puede negar que expresan pasión y compromiso con los sonidos que se vierten desde los árboles. Esto es lo que Garstang escuchó en el canto volador de una bisbita arbórea:

Espera ahora, mira y continúa aún
Escucha el trino sin voz 
Viene de ese delgado pico
Y cargado con la inconfesable alegría de su devoción
La emoción del éxtasis de los altibajos
Cómo alumbra de nuevo su árbol
Y entonces, si todo va bien aumentará:

¡Mira!-------e
          ¡--------e
                      --------e
                                   \-------e
                                                  --------e
                                                                !--------e
                                                                                   --------e
                                                                                                
                                                                                                   \-------e
                                                                                                                -------e!---

    Esta combinación de atención y pasión es, por el contrario, rara. Más que nada muestra cuán difícil es hacer ciencia y poesía al tiempo. Pero quizá ¿por qué cantan los pájaros? no sea una buena pregunta científica. Admiro a Garstang por intentarlo y desearía que otros hubieran corrido los mismos riesgos. En nuestra era, con todas las herramientas de la transcripción informatizada, estadísticas y avances científicos, ¿continúa la ciencia queriendo admitir su necesidad de poesía para comprender el completo significado de los pájaros? Garstang deseaba compartir la exaltación de las alondras. Tal y como transcribe su música en extrañas y locas sílabas, no podía sino entusiasmarse.
  La salvaje poesía de Garstang se parece menos a la ciencia y más al dadaísmo, reminiscente de famoso Ursonate, el sonido pionero y pieza de arte compuesta por Kurt Schwitters, más conocido por sus collages y pinturas. Este poema de treinta y tres minutos de sonidos se comenzó en 1922 y se pulió durante toda la década siguiente: está compuesto por lo que algunos llamarían sílabas sin sentido, pero los oyentes de pájaros rápidamene sabrían hasta que punto estaba influenciado por las notas utilizadas para humanizar el canto de los pájaros. Aquí tenemos un extracto:

Ooobee tatta tuu
Ooobee tatta tuu
Ooobee tatta tuii Ee
Ooobee tatta tuii Ee
Ooobee tatta tuiiEe tuiiEe
Ooobee tatta tuiiEe tuiiEe 

Tatta tatta tuiiEe tuiiEe
Tatta tatta tuiiEe tuiiEe

Tilla lalla tilla lalla
Tilla lalla tilla lalla

 Schwitters juega con el sonido por puro placer, pero yo soy contundente con el parecido de la supuestamente poesía científica de Garstang. Ambos salieron de los límites de sus respectivas disciplinas para estrechar el lenguaje hacia los límites de la sintaxis y del ruido del mundo.



Por qué cantan los pájaros
David Rothenberg

La sonda Rosetta, a una semana de alcanzar su destino


Si todo va según lo previsto el próximo jueves 6 de agosto de 2014, tras un viaje por el espacio de más de 10 años, la sonda Rosetta de la Agencia Espacial Europea entrará en órbita alrededor de su objetivo, el cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko.

El objetivo de la misión es que Rosetta siga en órbita alrededor de él, acompañándolo durante su periplo alrededor del Sol, y que el aterrizador, Philae, se pose la superficie de su núcleo, algo que está previsto que ocurra el 11 de noviembre, y que será la primera vez en la historia que logremos.



Imagen interpolada del núcleo de 67P tomada por la NAVCAM de Rosetta el pasado 28 de julio a unos 2237 kilómetros de este 



martes, 29 de julio de 2014

El hombre que paró al desierto

En sus comienzos en 1974, le tomaban por loco. Campesino burkinés, Yacouba Sawadogo se asignaba entonces la misión de replantar su región, reintroduciendo el Zaï, un método de cultivo tradicional olvidado. Su meta: restaurar la agricultura en unas tierras áridas afectadas por la desertificación. 40 años más tarde, la técnica floreció y fue aplicada en 8 países del Sahel. Más de 3 millones de hectáreas de tierras burkinesas estériles han sido rehabilitadas. 

 

Existen individuos cual audacia y temeridad inspiran respeto. Como afrentas al destino que repelen la niebla de la fatalidad. Yacouba Sawadogo es uno de ellos. Cuando en los años 1970, las poblaciones de Burkina Faso huyen del avance del desierto y su procesión de tierras estériles, este paisano nativo del pueblo de Gourga sólo tiene un objetivo en mente: repoblar la región. Es decir, lograr lo imposible a los ojos de muchos. Decidido a que crezcan semillas en un suelo afectado por la sequía, el hombre va a poner al día una técnica de agricultura tradicional.

Rendimientos cuadruplicados
Llamado Zaï, el método consiste en cavar hoyos de unos 20 centímetros para depositar estiércol y compost al lado de las semillas. Después de tres años de experimentación con diversas técnicas, el treintañero obstinado de entonces cree firmemente en las promesas del Zaï. Y acertará. Desde las primeras lluvias, el resultado es evidente. Los rendimientos se multiplican por dos, hasta por cuatro. Yacouba tiene éxito ahí dónde la máquina de la ayuda al desarrollo lucha desde hace décadas. Lejos de enorgullecerse de este éxito, coge su moto y se va a recorrer los caminos de Burkina Faso para enseñar el Zaï a los agricultores.

Plantar árboles
Él que se conoce como “el hombre que paró al desierto” tuvo con Ali Ouédraogo el ingenio para mejorar el método ancestral mediante la plantación de árboles. Las plantas ayudan a mantener la humedad del suelo y favorecen la infiltración natural del agua. “La gente pensaba que estaba loco cuando empecé a plantar estos árboles”, indica Yacouba Sawadogo, “es ahora cuando se dan cuenta de los beneficios del bosque.”

Éxito en el Sahel
Tal y como Elzéard Bouffier de Jean Giono, el hombre con ahora 66 años plantó así 30 hectáreas de bosques. Una cubierta vegetal hecha de especies locales. El Zaï ya cruzó las fronteras del Burkina, y da ejemplo desde entonces en 8 países del Sahel. Hasta la fecha, el método ancestral mejorado permitió rehabilitar más de 3 millones de hectáreas de suelos estériles, en la tierra de los hombres íntegros.

La mejora de los rendimientos generó mayores ingresos para los agricultores, puso freno al éxodo rural y fortaleció el nivel de autosuficiencia alimentaria. Con el apoyo de los expertos internacionales, Yacouba Sawadogo fórmula hoy un deseo a nuestros colegas de Rue 89: “Me gustaría que la gente tuviera el valor de crecer a partir de sus raíces.”
Más detalles con imágenes a través de este documental sobre Yacouba Sawadogo, por Marcos Dodd:

 

Las ciudades invisibles

El atlas del Gran Kan contiene también los mapas de las tierras prometidas visitadas en el pensamiento pero todavía no descubiertas o fundadas: la Nueva Atlántida, Utopía la Ciudad del Sol, Océana, Tamoé, Armonía, New-Lanark, Icaria.
  Pregunta Kublai a Marco:-Tú que exploras en torno y ves los signos, sabrás decirme hacia cuál de estos futuros nos impulsan los vientos propicios.
 -Para estos puertos no sabría trazar la ruta en la carta ni fijar la fecha de llegada. A veces me basta un escorzo abierto en mitad mismo de un paisaje incongruente, un aflorar de luces en la nieba, el diálogo de dos transeúntes que se encuentran en medio del trajín, para pensar que partiendo de allí juntaré pedazo a pedazo la ciudad perfecta, hecha de fragmentos mezclados con el resto, de instantes separados por intervalos, de señales que uno manda y no sabe quién las recibe. Si te digo que la ciudad a la cual tiende mi viaje es discontinua en el espacio y en el tiempo, ya más rala, ya más densa, no has de creer que se puede dejar de buscarla. Quizá mientras nosotros hablamos está aflorando desparramada dentro de los confines de su imperio; puedo rastrearla, pero de la manera que te he dicho.
  El Gran Kan estaba hojeando ya en su atlas los mapas de las ciudades que amenazan en la pesadillas y en las maldiciones: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World.
  Dice:-Todo es inútil si el último fondeadero no puede ser sino la ciudad infernal, y allí en el fondo donde, en una espiral cada vez más estrecha, nos sorbe la corriente.
  Y Polo: -El infierno de los vivos no es algo que será; hay uno, es aquel que existe ya aquí, el infierno que habitamos todos los días, que formamos estando juntos. Dos maneras hay de no sufrirlo. La primera es fácil para muchos: aceptar el infierno y volverse parte de él hasta el punto de no verlo más. La segunda es peligrosa y exige atención y aprendizaje continuos: buscar y saber reconocer quíen y qué, en medio del infierno, no es infierno, y hacerlo durar, y darle espacio.

Las ciudades invisibles
Italo Calvino

A propósito de Gaza, por Eric Hobsbawm

El historiador marxista Eric Hobsbawn publicó este artículo sobre el conflicto entre Israel y Gaza en el año 2009.
A 5 años de su publicación y a dos años de la muerte de su autor, las palabras del británico de origen judío siguen más vigentes que nunca ante la nueva ofensiva israelí, que ha dejado ya ás de 800 muertos y 5.000 heridos.


 “Durante tres semanas la barbarie ha sido mostrada ante un público universal, que ha observado, juzgado y, con pocas excepciones, rechazado el uso del terror militar por parte Israel contra un millón y medio de habitantes bloqueados desde 2006 en la Franja de Gaza. Nunca antes las justificaciones oficiales de la invasión han quedado tan claramente refutadas como ahora, con la combinación de cámaras y aritmética; ni el lenguaje de las “objetivos militares” con las imágenes ensangrentadas de niños y la quema de escuelas. Trece muertos de un lado, 1.360 de otro: no es difícil establecer dónde está la víctima. No hay mucho más que decir acerca de la terrible operación de Israel en Gaza. 
Excepto para aquellos de nosotros que somos judíos. En una larga e insegura historia como pueblo en la diáspora, nuestra reacción natural a los actos públicos ha incluido inevitablemente la pregunta: “¿Es bueno o malo para los judíos?” En este caso, la respuesta es inequívoca: “Malo para los judíos”.

Es claramente malo para los cinco millones y medio de judíos que viven en Israel y los territorios ocupados desde 1967, cuya seguridad se ve amenazada por las acciones militares israelíes que sus gobiernos adopten en Gaza y en Líbano, acciones que demuestran su incapacidad para lograr sus objetivos declarados y que perpetuan e intensifican el aislamiento de Israel en un Oriente Medio hostil. Desde el genocidio o la expulsión masiva de palestinos de lo que queda de su tierra natal no ha habido otro programa práctico que la destrucción del Estado de Israel, y sólo una coexistencia negociada en igualdad de condiciones entre los dos grupos puede proporcionar un futuro estable. Cada nueva aventura militar, como las de Gaza y el Líbano, hará que esa solución más difícil y fortalecerá al ala derecha israelí y a los colonos de Cisjordania, que encabezan el rechazo a la solución negociada.

Al igual que la guerra del Líbano en 2006, Gaza ha oscurecido las perspectivas de futuro para Israel. También ha oscurecido las perspectivas de los nueve millones de judíos que viven en la diáspora.

Permítanme que no me ande con rodeos: la crítica de Israel no implica antisemitismo, pero las acciones del gobierno de Israel causan vergüenza entre los judíos y, sobre todo, dan pie al acutal antisemitismo. Desde 1945, los judíos, dentro y fuera de Israel, se han beneficiado enormemente de la mala conciencia de un mundo occidental, que se había negado a la inmigración judía en la década de 1930, unos años antes de que se permitiera o no se opusiera al genocidio. ¿Cuánta de esa mala conciencia, que prácticamente eliminó el antisemitismo en Occidente durante sesenta años y produjo una época dorada para su diáspora, queda en la izquierda hoy?

La acción de Israel en Gaza no es la de un pueblo que es una víctima de la historia, ni siquiera es el “pequeño valiente” Israel de la mitología de 1948-67, con un David derrotando a todos los Goliaths de su entorno. Israel está perdiendo la buena voluntad tan rápidamente como los EE.UU. de George W. Bush, y por razones similares: la ceguera nacionalista y la megalomanía del poder militar. Lo que es bueno para Israel y lo que es bueno para los judíos como pueblo son cosas que están evidentemente vinculadas, pero mientras no haya una respuesta a la cuestión de Palestina no son y no pueden ser idénticas. Y es esencial para judíos que se diga.”

Fuente:  http://www.elciudadano.cl/2014/07/25/109731/a-proposito-de-gaza-por-eric-hobsbawm/

domingo, 27 de julio de 2014

'Israel insulta a la inteligencia, la dignidad y la humanidad'

Una veintena de médicos europeos critica la invasión militar de Gaza

Reclaman sanciones a la comunidad internacional y hablan de 'crímen de guerra'

'Si quienes podemos hablar no lo hacemos, seremos cómplices de la destrucción' 

Familias enteras de palestinos huyen de sus hogares.
Familias enteras de palestinos huyen de sus hogares. IBRAHEEM ABU MUSTAFA
  Durísimos son los términos elegidos por una veintena de médicos y científicos en una carta abierta a Israel publicada en la revista británica 'The Lancet', en la que se condena duramente el ataque sobre Gaza y se denuncian las consecuencias terribles que está teniendo para la población civil. 

Aislada por tierra y mar desde 2006, en la franja de Gaza existían ya -antes de este negro mes de julio- problemas con el suministro de comida y medicamentos o para que los pacientes necesitados de atención médica especializada pudiesen salir de Gaza, "ni a estudiar, trabajar, hacer negocios o visitar a familiares en el extranjero".

Sin embargo, a juicio de Paola Manduca y otra veintena de médicos británicos e italianos que firman la misiva en la revista médica, los ataques de los últimos 15 días (y la posterior invasión terrestre) "son crímenes contra la humanidad y no podemos permanecer callados mientras esto continúa. Las sanciones contra Israel deben tomarse inmediatamente".

Los firmantes aseguran que los ataques a la población civil y a instalaciones sensibles, como hospitales, escuelas o edificios que albergan a la prensa, desmienten "la excusa" de que el ataque tenga como objetivo "perseguir terroristas (...) En realidad es un ataque despiadado de duración, extensión e intensidad ilimitadas". Como recuerdan, además, para cualquier palestino mayor de seis años es el tercer ataque militar que sufre, con las secuelas psicológicas que esta situación acarreará a largo plazo.

Los médicos también critican la prohibición israelí de que Gaza reciba ayuda exterior para paliar las necesidades médicas y humanitarias de la población civil y recuerda que el 80% de los gazatíes dependen de la ayuda alimentaria que les suministra Naciones Unidas. "Incluso los que queremos ir allí y ayudar somos incapaces de llegar a Gaza debido al bloqueo", denuncian.

Según las cifras del Ministerio de Salud en Gaza y la Oficina de Naciones Unidas para la Coordinación de Asuntos Humanitarios, hasta principios de esta semana 149 de los 558 fallecidos eran niños, al igual que 1.100 de los 3.500 heridos; "eso sin contar a los que puedan estar enterrados bajo los escombros". Además, recuerdan, a causa de los sucesivos ataques militares "la tierra está contaminada por restos de armamento, con las consecuencias que ello tendrá para las futuras generaciones".

Quizás las palabras más duras son para sus propios colegas médicos israelíes, "sólo el 5% de los cuales ha firmado una misiva pidiendo a su Gobierno que detenga la operación militar contra Gaza. Estamos tentados por concluir que el resto de académicos israelíes son cómplices de esta masacre y destrucción. Pero también vemos en ello la complicidad del resto de países europeos y americanos y la impotencia una vez más de las instituciones y organizaciones internacionales para detener esta masacre".

"Nosotros, como médicos y científicos, no podemos permanecer en silencio mientras este crimen contra la humanidad continúa. E instamos a los lectores a que no permanezcan en silencio tampoco. Gaza está atrapada por el asedio y está siendo aniquilada por una de las maquinarias militares más modernas y sofisticadas del mundo (...). Si quienes podemos hablar, les fallamos, y no nos levantamos contra este crimen de guerra, seremos también cómplices de la destrucción de las vidas de 1,8 millones de personas en Gaza", concluyen.

Fuente:  http://www.elmundo.es/salud/2014/07/25/53d0dbc7e2704ebc108b4584.html

sábado, 26 de julio de 2014

Siempre dudando entre salvar el mundo o salvarnos de él (Neorrabioso)



Fuente: http://neorrabioso.blogspot.com.es/2014/07/siempre-dudando-entre-salvar-el-mundo-o_23.html

“Sin la Luna, la Tierra entraría en un movimiento caótico y la vida humana sería imposible”


El catedrático, que ha sido a lo largo de su vida mentor de más de 120 jóvenes matemáticos, carga contra la “pereza mental” que implica utilizar una calculadora hasta para sumar el precio de una barra de pan y un cruasán


 Al chaval que se pregunte para qué demonios sirven las matemáticas, se le podría recetar una charla con Carles Simó. Nacido en Barcelona en 1946, este matemático ha formado a lo largo de su vida a más de 120 jóvenes doctores. Uno de ellos se dedica a diseñar velas solares para satélites. Otro ayuda a elaborar mapas hiperprecisos. Otro más estima riesgos de trombas de agua para una empresa aseguradora. Un cuarto discípulo asesora grandes inversiones en un banco. Y así se podría desplegar una lista sin fin.
Simó, catedrático de Matemática Aplicada en la Universidad de Barcelona, es experto en sistemas dinámicos, aquellos que evolucionan, ya sea la propagación de una enfermedad, el movimiento de los astros o el calentamiento global. Las herramientas matemáticas para enfrentarse a estos problemas son, en muchos casos, las mismas. El profesor recuerda cuando, en 1984, empezó a hablar en su jerga de sistemas dinámicos con ingenieros de la Agencia Espacial Europea. “Decían: ‘¿Qué locura es esta? ¿Qué nos estáis vendiendo aquí?’”. Pero de aquella colaboración nació una nueva forma de diseñar misiones espaciales, que se aplicó por primera vez en la sonda SOHO, lanzada en 1995 para estudiar el Sol. Aprovechando la dinámica natural de los cuerpos celestes, su equipo consiguió que el aparato utilizara 20 veces menos combustible que las naves anteriores. “Estaba previsto que la sonda durara tres años o poco más, pero en estos momentos lleva 19 años y sigue funcionando”, presume

Acompañado por un bloc de notas lleno de fórmulas matemáticas escritas con bolígrafo, Simó responde a las preguntas de Materia en un descanso del mayor congreso mundial de las matemáticas aplicadas, coorganizado recientemente en Madrid por el Instituto de Ciencias Matemáticas (ICMAT).

En su estudio “La omnipresencia del caos” se preguntaba qué pasaría si no existiese la Luna. ¿Qué ocurriría?Es una cosa divertida. Ahora la Tierra gira alrededor de un eje y este eje no es perpendicular al plano en el que la Tierra se mueve alrededor del Sol. El plano en el que la Tierra se mueve alrededor del Sol se llama la eclíptica y el plano ortogonal al eje de rotación de la Tierra es el Ecuador. Resulta que el plano del Ecuador y el plano de la eclíptica forman un ángulo de 23 grados y 27 minutos de arco aproximadamente. Resulta que el eje de rotación de la Tierra a su vez no está fijo, se va moviendo como en un cono. Esto es lo que se llama la precesión de los equinoccios, que tiene un período de unos 26.000 años. ¿Qué pasaría si no estuviera la Luna? Este movimiento del eje de rotación de la Tierra es debido a la acción de las fuerzas conjuntas de la Luna y el Sol. La Luna es chiquita pero está mucho más cerca, entonces resulta que el efecto de la Luna es el doble del efecto del Sol. Si la Luna no está, sólo nos queda el efecto del Sol. Este periodo que actualmente es de 26.000 años pasaría a ser el triple, 78.000 años. Pero resulta que hay una perturbación sobre el movimiento de la Tierra debido a Júpiter que también tiene ese periodo de 78.000 años. Entonces esto entra en resonancia.

¿En resonancia?
El matemático Carles Simó, tras la entrevista
El matemático Carles Simó, tras la entrevista / M. A.
Sí, el ejemplo típico es un puente que vibra, por supuesto, porque no puede ser absolutamente rígido ya que se rompería. Y tiene una frecuencia propia. Imaginemos que el puente, si pasa una ráfaga fuerte de viento, empieza a vibrar a un ritmo de una oscilación cada segundo. Si por encima pasa un batallón de soldados que da empujones al puente exactamente con la frecuencia propia de la oscilación del puente, las oscilaciones van a ir creciendo hasta que se rompe. Es el ejemplo típico del efecto de la resonancia o cómo romper un puente flexible mediante el paso de un batallón.

Entonces, ¿qué ocurriría si no existiera la Luna?
Si no estuviera la Luna, el eje de rotación de la Tierra entra en resonancia con el efecto de Júpiter, con lo cual este giro con un ángulo de 23 grados y 27 minutos con respecto a la perpendicular al plano de la eclíptica donde se mueve la Tierra alrededor del Sol empezaría a bailar. Resultado: a tiempos lentos, quizá 200.000 años, podría ser que en un cierto momento este ángulo de 23 grados fuera cero. Los casquetes polares ahora están medio año sin luz. Si el eje de rotación de la Tierra es perpendicular al plano en el que nos movemos, el Sol estaría iluminando todo el año los casquetes. Se fundirían. Al fundirse, los rayos de luz que llegan ahora a los casquetes y se reflejan ya no se reflejarían. Serían absorbidos. Resultado: aumenta la temperatura media de la Tierra, incluso algo así como 50 grados más.

Y podría ocurrir el efecto contrario.
Sí, ahora supongamos que el eje, en lugar de ser vertical, con 23 grados, pasa a formar 60 grados. Significaría que hay una gran parte de la Tierra que pasa a estar oscura durante medio año. El casquete polar posiblemente llegaría hasta Guadalajara, Madrid o Cádiz. Al mismo tiempo, el efecto de que los rayos de luz se reflejen en los casquetes es una menor absorción de calor, con lo cual la temperatura podría disminuir digamos que 50 grados. Sin Luna habría un movimiento caótico que podría llegar a ser vertical, sin casquetes polares y con un aumento de la temperatura de 50 grados, y al cabo de medio millón de años los casquetes polares llegarían hasta Rabat y la temperatura bajaría 50 grados. La vida sería imposible para la especie humana. Pero, como dice una colega italiana, la matemática Alessandra Celletti, “ma per fortuna è una notte di luna”, que es una frase de la ópera La Bohème.

Volviendo al estudio de “La omnipresencia del caos”, usted se preguntaba la razón de esta omnipresencia del caos en todos los fenómenos de la naturaleza. ¿Cuál es?
La omnipresencia del caos es debida a lo siguiente: en un sistema cualquier puedes tener una cierta regularidad. Todo se mueve por ejemplo con una velocidad uniforme. Muy bien. Pero si uno piensa en cómo se mueve por ejemplo la Tierra alrededor del Sol, el movimiento es mucho más complejo. ¿Por qué? Porque, primero, está la presencia de la Luna, luego tienes Júpiter, que desempeña un papel importante. El movimiento es mucho más complicado debido a estas perturbaciones. ¿Es completamente regular o no? La respuesta es que pequeños cambios pueden hacer que, en realidad, medido a tiempo corto, el sistema sea predictible. ¿Dónde va a estar la Tierra dentro de un millón de años? Podemos predecirlo suficientemente bien. ¿Dónde va a estar la Tierra dentro de 10 millones de años? Ya es más difícil. ¿Por qué ocurre esto? Pequeños errores iniciales pueden amplificarse. ¿Sabemos dónde está el centro de masas de la Luna con respecto al centro de masas de la Tierra ahora en este momento? Lo sabemos con un cierto error, que quizá sean 20 centímetros, pero no exactamente. Esos 20 centímetros, dentro de 20 millones años pueden ser varias revoluciones de más o de menos.

¿No sabemos dónde estará la Tierra dentro de 10 millones de años?
Podemos tener errores del orden de miles o millones de kilómetros. Estará cerca de la órbita actual, pero no sabemos en qué posición.

¿Esta nueva posición supondría cambios catastróficos?No, los cambios catastróficos no vendrían por aquí.


El movimiento de precesión de la Tierra es como el de una peonza / Comunidad Astronómica Chilena

Usted sostiene que tras tirar un dado se puede adivinar qué va a salir, que no es tan aleatorio.Si sabemos exactamente cómo lo tiramos, si sabemos cuál es la forma exacta del dado y cuál es la sección recta del dado en distintas posiciones. Cuando el dado va cayendo pasa capas de aire, el aire lo está frenando, luego impacta y según las propiedades elásticas va a rebotar más o menos, por tanto uno podría llegar a predecir qué va a salir. Es una cosa extraordinariamente complicada predecir esto, pero en teoría se puede, igual que se puede predecir lo que va a salir en la ruleta.

También mencionaba en “La omnipresencia del caos” la contaminación, el clima, la insuficiencia de alimentos y la superpoblación como ejemplos de sistemas con caos.
Son ejemplos de sistemas con caos, sí.

Así que, de alguna manera, son impredecibles.La pregunta es: ¿por qué leyes se rigen? Además, hay un efecto supercontaminante y es que la ley básica que rige la economía es el beneficio personal. Tengo amigos que son economistas y a veces les digo que algunos modelos de economía se olvidan de una variable que juega un papel fundamental y no está descrita en los modelos: la mala leche, únicamente buscar el beneficio personal, de una oligarquía, además. Mientras esto no se arregle, vamos mal. Si todo el mundo fuera consciente de que hay que mejorar las cosas, se puede hacer. Hay maneras de solucionar muchos problemas.

Cuando los matemáticos hablan con sus colegas que se han pasado al mundo financiero más desalmado, ¿los miran con recelo?
No es que los matemáticos hayan creado un monstruo. Si les dicen que estudien un modelo, estudian ese modelo. El Estado debería regular esto, en vez de beneficiarlo. Hay maneras muy simples. Por ejemplo, te enteras de que una empresa va mal y vas a comprar acciones porque luego la van a resucitar y vas a ganar mucho dinero. Bien. Si compras algo a un precio barato y luego el precio aumenta rápidamente, si hay una ley que te prohíbe vender esas acciones en dos años, te lo vas a pensar tres veces, no harás una inversión especulativa. Los expertos deberían asesorar para hacer una regulación que impida la especulación.

¿Nunca le han ofrecido pasarse al mundo financiero?
No, porque saben que les diría que no. Yo tenía un estudiante muy brillante y por motivos familiares entró a trabajar en un banco. Debe de estar ganando más del doble que yo. Cuando nos vemos dice: “Sí, muy bien, pero me estoy aburriendo”. Yo nunca he entendido que una persona, aunque sea presidente de un banco, gane más allá de un sueldo razonable. Podría ser como mucho un millón de euros al año, que ya para mí es excesivo. Más allá de esto, en vez de preguntarle “¿cuánto ganas?” habría que decirle “¿cuánto robas?”.

Usted proclamó al recoger el Premio Nacional de Investigación de Cataluña de 2012: “Me preocupan los jóvenes y la infrautilización de los matemáticos. Pueden trabajar en todas partes”. ¿Por qué le preocupan?Por ejemplo, me parece una locura que en las universidades no se pueda contratar personal joven ahora. Son doctores bien formados que tienen que buscarse la vida donde puedan. Muchos se van fuera. Hoy, en este congreso, hay compañeros que han estado presentando estudios aquí y dentro de dos semanas se van a trabajar a EEUU o a Alemania. Esto es una locura y está pasando ahora mismo. Contratar investigadores, exigiéndoles que rindan cuentas, ¿qué puede costar? ¿Cuántos millones? ¿Y cuánto nos ha costado el rescate de Bankia? ¿Cuánto nos ha costado el rescate de CatalunyaCaixa? ¿Cuánto nos va a costar el rescate de las autopistas cercanas a Madrid? ¿Cuánto nos va a costar el rescate del Castor [un almacén de gas natural en un antiguo pozo petrolífero submarino frente a las costas de Castellón]? Eso es una locura. No habría que pagar ni un euro por ninguna de estas cosas y dedicarlos a cosas productivas, como contratar a personas bien formadas que tiren del país hacia adelante.

Uno de cada seis alumnos españoles de 15 años no sabe interpretar una factura, según el informe PISA. ¿Cómo ve usted la enseñanza de las matemáticas?
Yo creo que es una locura que los alumnos en bachillerato tengan ordenadores y tal. De acuerdo, que los usen en casa o lo que sea, pero que trabajen un poco a mano. Cuando vas a comprar una barra de pan y un cruasán, ¿te parece correcto que la persona que está allí en la caja y te tiene que cobrar una barra de pan y un cruasán tenga una calculadora para sumar los precios? Esto es pereza mental.

El ‘Nobel’ de las matemáticas Charles Fefferman sigue trabajando con papel y bolígrafo, por ejemplo.
Yo cuando estaba esperando en el congreso he ido llenando un bloc. Luego en el ordenador haré un programita para comprobar que no me he equivocado con esos cálculos que he hecho a mano.


Fuente:  http://esmateria.com/2014/07/25/si-existiera-la-luna-la-tierra-entraria-en-un-movimiento-caotico-y-la-vida-humana-seria-imposible/

"Mis amigos y yo aprendimos como soldados a ver a cada palestino como a un enemigo, y por tanto un objetivo legítimo"

Yehuda Saúl, exsoldado y fundador de la ONG israelí Breaking the Silence, explica que "los casos de abusos a palestinos han sido la norma durante años", pero la sociedad israelí prefiere ignorar esa realidad

"Si la ocupación no acaba, estaremos condenados a otra operación sangrienta similar a la actual en un año o dos"

"Como soldados, nos enviaban a intimidar y castigar a la población civil de forma sistemática"

Yehuda Sául, fundador de Breaking the Silence, lucha para que la sociedad israelí asuma la realidad de la ocupación. Foto: Bostjan Videmsek
Yehuda Sául, fundador de Breaking the Silence, lucha para que la sociedad israelí asuma la realidad de la ocupación. Foto: Bostjan Videmsek
 "La situación en Israel nunca ha sido peor. La mayoría de la gente sigue a ciegas lo que dice y hace el Estado. Nadie cuestiona nada, mucho menos duda. Lo más preocupante es el nivel de obediencia. El de odio está creciendo cada día. Los sentimientos negativos hacia todo aquel que piensa diferente son enormes. No sólo los sentimientos. La gente que se manifiesta en la calle contra la guerra es golpeada. La policía se muestra indiferente ante estos actos y no hace nada. Es una señal pésima sobre el futuro de este país", dice Yehuda Saúl, fundador de la ONG israelí Breaking the Silence (romper el silencio), una organización de veteranos del Ejército que sirvieron desde la segunda intifada. Tomaron como misión denunciar a la opinión pública israelí la realidad de la vida cotidiana en los territorios palestinos ocupados.

"Intentamos fomentar un debate público sobre el precio que pagamos por una realidad en la que los jóvenes soldados tienen que controlar la vida de esa población", afirma el grupo sobre su actividad.
Esos soldados que sirven en los Territorios (palestinos) cambiarán por completo a causa de esas operaciones militares: "Los casos de abusos a palestinos, con saqueos y destrucción de la propiedad, han sido la norma durante años, pero aún se explican como si fueran casos únicos y extremos. Lo que muestran nuestros testimonios es que revelan una imagen deprimente y distinta en la que el deterioro de los niveles morales de actuación se hace patente en las órdenes y normas de combate, que se justifican en nombre de la seguridad de Israel. Los soldados y jefes militares conocen esta realidad, mientras que la sociedad israelí mira a otro lado y niega lo que se hace en su nombre", dice el manifiesto de la ONG.

Hasta hoy, la organización ha recogido más de 950 testimonios de soldados que representan a toda la sociedad israelí y a casi todas las unidades militares desplegadas en los Territorios. Afirma que los testimonios publicados han sido revisados y contrastados, y los hechos son verificados y cruzados con los testimonios de otros soldados y con los archivos de otras organizaciones de derechos humanos.

"Cada soldado que da su testimonio a Breaking the Silence conoce los objetivos de la organización. La mayoría de los soldados prefiere permanecer en el anonimato a causa de las presiones que reciben de los militares y de la sociedad en general", explica.

"En noviembre de 2101, Israel lanzó una operación militar en Gaza llamada Amud Anan. La traducción literal sería Pilar de Nubes. Pero el nombre oficial en inglés (y español) pasó a ser Pilar de Defensa. Hace un par de semanas, lanzamos otra operación (la actual en Gaza) llamada Acantilado Poderoso, que ahora oficialmente se llama Límite Protector. Ambos nombres tienen una connotación de defensa", dice Yehuda Saúl, que sirvió como oficial en Cisjordania hace una década y que es básicamente un testigo.

"Cuando oigo los nombres que dan a las operaciones militares en Gaza, especialmente las versiones elegidas para la audiencia internacional, me recuerda a mi servicio militar en el Ejército, cuyo nombre oficial, tanto en hebreo como en inglés, es Fuerzas de Defensa de Israel (IDF, en sus siglas en inglés). Me recuerda la diferencia que descubrí en la época de mi servicio militar entre lo que representa el nombre y la realidad de las operaciones que llevábamos a cabo en Cisjordania. Oficialmente, la misión que teníamos era defensiva. Realizábamos operaciones "preventivas". Pero mis amigos y yo descubrimos que la "prevención" no era otra cosa que un nombre en clave para definir operaciones ofensivas de todo tipo. Bogui Ya'alon, entonces jefe de las FFAA y ahora ministro de Defensa, nos pedía que "quemáramos la conciencia palestina". Para conseguirlo, nos enviaban a intimidar y castigar a la población civil de forma sistemática. Partían de la presunción de que dejarían de rebelarse si eran heridos, oprimidos o asustados. Una conciencia asustada es, en otras palabras, una "conciencia quemada", cuenta Saúl, que ha trabajado sin parar en las últimas semanas.

La atmósfera belicista y la falta de iniciativas humanitarias le están pasando factura. Está aterrorizado por lo que está sucediendo en Gaza, que sufre la tercera ofensiva en menos de seis años.

"Incluso después de la retirada de 2005, aún controlamos el espacio aéreo y las aguas territoriales de Gaza, zonas de separación dentro de Gaza, y el movimiento de personas y bienes que entran y salen de Gaza. La población de Gaza está registrada por Israel. Para obtener un carné de identificación con 16 años, se requiere la aprobación de Israel. Y es sólo la punta del iceberg. Una de las consecuencias de este control son las operaciones militares periódicas, que causan un nivel terrible de destrucción, no sólo a la infraestructura paramilitar, sino también a civies, a hombres, mujeres y niños", dice Saúl.

En su opinión, no es una realidad que se ha impuesto sobre Israel. "Es el resultado de decisiones tomadas por nuestras autoridades todos los días, para mantener el control sobre los territorios palestinos y la población que vive allí. Conozco bien las consecuencias de esas decisiones, porque como soldado y oficial tomé parte en su aplicación. Supe que preservar ese control exige el uso constante de la fuerza. Supe que es imposible aplicar por la fuerza el control de una población de millones durante décadas por un Gobierno extranjero de una manera ética. Dar nombres defensivos a las operaciones en Gaza no cambiará la naturaleza de esas operaciones. El cambio real sólo se producirá cuando acabe la ocupación. De hecho es difícil saber si la amenaza a las ciudades del sur de Israel acabará si se pone fin a la ocupación. Pero sí sabemos que si la ocupación no acaba, estaremos condenados a otra operación sangrienta similar a la actual en un año o dos. La semántica no cambiará la realidad en la que Israel no sólo se defiende, sino que ataca, no sólo en estos días tan difíciles, sino cada día desde siempre. En vez de intentar explicarlo y justificarlo, debemos actuar ya. Tenemos que decir ahora: es hora de acabar con la ocupación".

"No me malinterprete. Como israelí, no cuestionó el derecho de Israel a defenderse. Hamás es una organización terrorista, sin duda. Los ataques con cohetes desde Gaza han conseguido asesinar a dos civiles israelíes. Es una semilla horrible que no tiene justificación. Amenaza las vidas de hombres, mujeres y niños en todo el país. Pero esos cohetes no convierten a todos los habitantes de Gaza en objetivos legítimos para el castigo colectivo".

"Mis amigos y yo aprendimos como soldados a ver a cada palestino como a un enemigo, y por tanto un objetivo legítimo. Cuando hacíamos operaciones para "demostrar nuestra presencia", nuestro objetivo era asustar para que la población civil supiera que estaban bajo nuestro control. Lo conseguíamos con patrullas en las calles y entrando en casas elegidas al azar a todas horas, de día y de noche. No había una información concreta de inteligencia que nos guiara en esas operaciones. Y otras veces "preveníamos" el terrorismo a través del castigo colectivo de palestinos inocentes".

Breaking the Silence (fundada en 2004) es una voz influyente en favor de la verdad y el realismo en Israel. Su influencia está creciendo y ha servido para abrir los ojos de muchos. Pero el rápido crecimiento de la extrema derecha en la política israelí, con gente como el ministro de Exteriores, Avigdor Lieberman, dejando su huella, han radicalizado la política y la sociedad. Los resultados de esa radicalización son visibles dentro de Gaza, pero no sólo allí. Los exsoldados de esta ONG lo padecen en Israel con reacciones de indiferencia o incluso de odio.

"Nunca lo hemos pasado tan mal en nuestra organización. ¡Nunca! Es muy difícil de soportar, pero resistimos. Espero que esto sea un ciclo natural y que hagamos llegado al fondo, y que a partir de ahora todo vaya en la buena dirección", concluye Saúl.